Questo novembre 2018 ha visto l’Irlanda come protagonista di una serie di polemiche e critiche (totalmente lecite e giuste) a causa di una sentenza nella quale un 27enne è stato assolto da un’accusa di stupro nei confronti di una 17enne, perché lei “indossava un tanga” e, di conseguenza, considerata consenziente. Questo, almeno, è ciò che è stato diffuso dall’informazione e dai media. Ebbene, questa giovane non è stata “solo” violentata da un uomo, ma ha subito un’ulteriore violenza da parte della società intera, che non ha riconosciuto un reato contro la persona, un reato che può portare conseguenze anche molto gravi e non solo a livello fisico (basti andare a vedere i vari commenti che sono stati fatti sulla vicenda).
Ma questo non è che uno tra i numerosissimi casi in tutto il mondo che si potrebbero citare di violenza contro le donne che si sono susseguiti nel corso dei secoli, da parte di un singolo o di un gruppo (nel senso lato del termine).
In occasione della giornata contro la violenza sulle donne del 25 novembre, ho preso l’iniziativa di scrivere un breve documento sul tema. Le fonti cui faranno riferimento le informazioni che verranno riportate sono sia personali, dovute al mio lavoro sul campo, sia relative a vari incontri o convegni seguiti nel corso della mia esperienza professionale. Mi chiamo Roberta, ed è ormai da un anno che lavoro all’UDI – Unione donne del terzo millennio, un’associazione che si occupa di problematiche legate al femminile. Essa racchiude uno sportello giuridico e psicologico, un centro anti-violenza e diverse figure professionali che accompagnano le donne maggiorenni a superare le difficoltà cui vanno incontro (anche di tipo lavorativo o abitative).
Di cosa si parla, anzitutto, quando si fa riferimento alla “violenza contro le donne”? Questa va intesa come un costrutto multidimensionale, caratterizzato da diverse tipologie di violenza che possono essere attuate nei confronti della figura femminile: fisica, verbale, psicologia ed economica (altri autori fanno anche riferimento ad una violenza di tipo sociale/culturale, che consiste nel soggiogamento, la segregazione, il divieto o il controllo severo della persona).
A livello macro, la causa principale e scatenante questa tipologia di violenza è possibile individuarla nella cultura. Nonostante le continue lotte che le donne stanno attuando nel corso del tempo per ottenere i pari diritti, quella che ancora vige è una cultura di tipo patriarcale; di dominanza, di possesso e di sottomissione dell’uomo sulla donna. Questa ha evidenti e provate conseguenze negative non soltanto sulla donna, ma anche sugli uomini. Questi sono obbligati ad una continua competizione e lotta di supremazia, ad una repressione delle proprie emozioni la cui espressione è sintomo di “debolezza” e “femminilità” (intesa negativamente), e ad un continuo sguardo su se stessi, sulla propria mascolinità espressa anche a livello di prestazioni sessuali. Generalizzando, gli uomini non hanno un’”educazione emotiva”; sin dall’infanzia non sono abituati al riconoscimento delle proprie emozioni e dei propri sentimenti, prerogativa delle femmine. Ciò influenza successivamente le relazioni interpersonali, che, nei casi più gravi, possono evolversi in relazioni di tipo violento.
Negli ultimi anni i dati relativi alle donne che subiscono atti violenti (che effetti e conseguenze possono scaturire nel definirle “vittime”? Oppure, utilizzando la terminologia anglosassone, “le sopravvissute”?) sono aumentati, questo secondo i dati riportati dal Ministro degli Interni e da altre fonti sul campo. Cosa può significare questo dato apparentemente allarmante? Che sia aumentata la violenza? No. Fortunatamente sta incrementando, invece, il numero di donne che richiedono aiuto. Le donne sono meno sole di una volta nell’affrontare la violenza, attorno a loro si sta costruendo una rete di associazioni ed enti pronte ad accoglierle. Queste si confidano molto di più e se ne parla molto di più. Però solo il 13% (e faccio riferimento a dati italiani) attua nel concreto una denuncia; di questo fenomeno è elevato, ancora, il sommerso.
Per quanto riguarda le tipologie di violenze messe in atto, le più esplicite stanno diminuendo, probabilmente grazie al clima sociale dei nostri tempi; fino a non molto tempo fa della violenza contro le donne non se ne parlava, mentre adesso anche i media tentano di fare più informazione. Ma ciò che preoccupa è il fatto che la violenza che permane diventi sempre più aggressiva e “incattivita”. La presa di coscienza femminile aumenta sempre di più, si tende ad interrompere una relazione ai primi segnali di avvertimento (soprattutto tra le giovani), prima che la situazione possa degenerare, per quanto ciò non riguardi ancora la maggioranza. Difatti il femmicidio (e NON femminicidio, come è utilizzato nel linguaggio comune, che è un termine molto più complesso, che racchiude diversi significati legati alla violenza contro le donne, anche di tipo sociologico e politico), cioè l’uccisione della donna da parte dell’uomo proprio per il fatto di essere donna, non è il punto di partenza, ma quello di arrivo dopo, in genere, una lunga escalation di violenze, soprattutto nel momento in cui la donna non è supportata dai familiari o chi le sta vicino.
Questa incattivimento della violenza deriva, appunto, da questa stessa consapevolezza femminile, che richiede una maggiore libertà, e se queste vivono una relazione con uomini che hanno come impostazione mentale un’idea di possesso e di predominio, il rischio che si scateni la violenza è più elevato.
La violenza contro le donne non è un problema esclusivamente del genere femminile, ma questa comporta elevati costi alla sanità pubblica. Nella maggioranza dei casi, le donne si rivolgono inizialmente ai Pronto Soccorso, non sempre della propria zona, e non sempre nello stesso. Ma anche la rete di enti e associazioni che lavorano per il femminile sono numerose e richiedono degli investimenti in termini di tempo e denaro.
Non potendo esimermi dal fare delle considerazioni personali, più sopra ho accennato all’informazione dei media e ci terrei a fare una qualche precisazione a riguardo. Se da un lato trovo positivo il fatto che i diversi mezzi di comunicazione si occupino di portare a galla il fenomeno non lasciandolo più come prerogativa di chi lavori in prima linea, dall’altro lato sono scettica per quanto riguarda il come queste informazioni vengano riportate. Subito mi risalta agli occhi l’incongruenza delle informazioni riportate con i dati reali. Circa l’80% delle violenze avviene all’interno delle mura domestiche, ma se dovessi basarmi su ciò che i media riportano, e non sulle mie conoscenze, e ribadisco che il mio discorso riguardi il contesto italiano, le donne dovrebbero vivere in un clima costante di terrore nei confronti del mondo esterno. Con ciò non voglio dire che il pericolo al di fuori della propria casa non esista, tutt’altro; questo c’è e va contrastato. Però al tempo stesso vi è una dispercezione sull’incidenza del fenomeno, e della violenza domestica se ne parla ancora troppo poco.
Oppure, penso spesso al fenomeno dello stalking. Di nuovo, se dovessi basarmi solo su quanto riportato dai mezzi di comunicazione, appare che la maggior parte dei casi non venga risolta, e che le Forze dell’ordine siano abbastanza incompetenti a riguardo. Invece non è così. Fortunatamente una buona percentuale dei casi viene risolta, prevenendo gravi conseguenze su chi subisce tale violenza.
E, quindi, cosa fare? Come si può contrastare la violenza?
Non basta arrivare dopo, quando la violenza è stata attuata, e seguire le donne nell’uscita dalla violenza, quando finalmente esse sentono che sia giunto il momento di reagire.
Questo, per quanto fondamentale, non porterà ad alcun cambiamento, se non nel singolo.
A questo punto, riporterei sempre delle considerazioni personali, sperando possano essere spunto di riflessione e di confronto costruttivo. Si parla tanto negli ultimi tempi di prevenzione primaria, ed è un discorso molto articolato e le proposte sono tante. Si dovrebbe partire sin dall’infanzia, nel momento in cui si formano i primi schemi mentali, e lavorare non già sulla violenza, quanto sugli stereotipi di genere (dato che parlare in termini di violenza con bambini/e è piuttosto precoce). Fare un’educazione ai sentimenti e alle emozioni per i bambini, e lavori sul rispetto dell’altro/a. Non per forza i bambini devono mostrarsi forti e “duri”, e non per forza le bambine devono imparare che la rabbia non debba essere espressa poiché non si confà ad una “signorina”, che devono essere educate e pacate mentre i bambini è normale che siano più irruenti e “agitati”.
Inoltre, ciò che distingue l’essere umano dagli altri esseri viventi è la sua capacità di linguaggio. Sin da subito impariamo a comunicare con l’altro/a, prima attraverso dei versi, poi con i gesti, successivamente ancora con le parole. E allo stesso tempo il linguaggio è una componente fondamentale per la costruzione dei nostri schemi mentali. Pensando alla lingua italiana, non è nuovo il discorso su un linguaggio che è“sessista”. È giusto cambiare il linguaggio iniziando a utilizzare formalità quali “tutti e tutte”, di modo che anche le donne possano sentirsi incluse, per esempio, in un’aula? È giusto utilizzare termini quali “avvocata”, “sindaca” (ricordo che fu quasi scandaloso quando si iniziò ad utilizzare questo in particolare) o “assessora” e altri? È giusto smetterla di utilizzare termini quali “troia” o “puttana” riferendosi a donne che hanno una sessualità più “aperta”?La mia personale risposta a tutte queste domande è: sì.
Pochi giorni fa mi è stato detto da una persona (ed è volontaria la mia decisione di non esplicitarne il genere o il sesso) che “sono ca**i delle donne se non di riconoscono nel linguaggio”. A prescindere dalla volgarità sulla quale preferirei sorvolare, non è – come già ho espresso per quanto riguarda la violenza, ma penso sia un discorso che si possa estendere più in generale alla discriminazione di genere – un problema esclusivo delle donne. La lotta contro la discriminazione nei confronti delle donne, che poi si articola e si manifesta attraverso il sessismo (nella vita di tutti i giorni o in quella lavorativa) o con la violenza, è una lotta che va fatta insieme: uomini e donne. Pochi sono, per ora, gli uomini che attivamente lottano a fianco delle donne in questa battaglia, ma un cambiamento a livello macro può avvenire solo se tutta una società riconosce che ci sia un problema e che si possa e debba fare qualcosa per modificare una situazione che si è cristallizzata nel corso dei secoli.
Per ogni punto da me affrontato a grandi linee avrei potuto parlare per pagine intere, ma ho cercato di essere il più sintetica e chiara possibile per poter racchiudere l’essenziale. Volentieri avrei parlato anche della questione lavorativa; la maggior parte delle donne che si trovano in relazioni violente sono donne che non hanno un lavoro, e ci si concentra anche sulla loro autonomia e indipendenza lavorativa. Oppure, il sessismo e la violenza nel mondo del lavoro che ancora dilagano (il divario dello stipendio tra uomini e donne, le percentuali di assunzione delle donne nei ruoli più elevati, eccetera). Però penso che per ogni questione si potrebbero fare dei trattati interi.
È necessario parlarne di più e, inoltre, è necessario non fermarsi alla parola ma agire nel proprio quotidiano affinché questa giornata, un giorno, possa non esistere più. Nel contrasto alla violenza è importante essere uniti e unite, confrontarsi e informarsi.
La strada per il raggiungimento della parità tra i sessi è ancora lunga per quanto alcune cose siano state ottenute, alcune leggi riescano a tutelare le donne, ma non bisogna fermarsi qui adagiandosi sugli allori, perché c’è ancora tanto da fare.
Questo è una sorta di documento scritto da me: una ragazza che non si autodefinisce femminista (almeno non adesso). Questo non perché io non sia convinta dell’importanza delle donne femministe che hanno lottato ai loro tempi e che mi hanno permesso di avere i privilegi di cui ora posso disporre. Ma penso che questo termine sia molto inquinato ai giorni nostri, e carico di pregiudizi e aspettative negative nei confronti di chi, semplicemente, crede come me nel rispetto per tutti gli esseri viventi, uomini o donne o altro, e cerca di fare qualcosa per ottenerlo.
Roberta Del Grosso