“Sono stato in Africa, sono stato ad Haiti, sono stato a New York, in California, sono stato in tutti gli Stati Uniti- raro cancro osservato in 41 pazienti gay, deficienza immunitaria correlata all’omosessualità-, sono stato in Brasile, sono arrivato in Europa, sono stato scimmia, membro della tribù, partner inconsapevole, attore porno, aspirante cantante, e poi sconosciuto, donna tradita, danzatore, tossico, escort, parrucchiere, dirigente d’azienda, sportivo, paziente a cui gli è andata male, marito infedele, impiegato, senzatetto, figlio di balordi, attivista, prete, drag queen, ragazza transgender, professore, casalinga, medico, operaio, poeta, fotografo, madre che l’ha trasmesso al figlio, untore, vendicatore, adolescente alle prime esperienze, vittima di stupro: il virus è stato in tutti questi corpi, li ha attraversati, sfruttati, erosi.”
Sarà una recensione un po’ speciale, questa che segue, ricca, lunga e forse più forte di quelle fatte fino ad adesso. Mi sento quasi inopportuna ad aver apprezzato talmente tanto un libro come questo, perché più di altri parla di vita personale e dolore, di malattia e di famiglia. E a me sembra sempre di spiare quando leggo un libro così intimo. Ma invece no, non sto spiando. Jonathan Bazzi ha deciso di mettere per iscritto la sua vita, da bambino ad adulto, e lo fa con un pugno all’altezza dello stomaco.
Vi ho già parlato un po’ di questo libro e lo avete visto spesso nelle mie storie, ma questo è quello che succede quando sono entusiasta di qualcosa. Sono stata entusiasta di questo libro e di aver potuto parlare con l’autore. Sono stata entusiasta di averlo letto e lo sono di consigliarlo a chiunque. Ho imparato tantissime cose nell’ultimo periodo, di malattie e di vita, di sfortuna e di amore incondizionato. E un po’ lo devo a te, Jonathan. Per averci parlato così chiaramente di cosa vuol dire essere un bambino, un ragazzo, un uomo, a Rozzano e poi a Milano. Un omosessuale e un sieropositivo dichiarato, espressione che hai usato nei nostri scambi di mail e apprezzo tantissimo. Nel libro sono arrivata a volerti bene senza averti mai conosciuto prima se non per un breve saluto a Salone del libro 2019. Non penso mi sia mai capitato. Quindi grazie per quello che hai fatto e spero che continuerai a farlo ancora per molto.
Febbre non è un libro facile. È un libro che parla di infanzia, di violenza, di separazioni che sono dolorose e di unioni che risultano ancora peggiori. Parla di malattia e di scoperta, sessuale ed emotiva. Anche di scoperta di parti di sé che possono spaventare, perché non ci si percepisce più come invincibili, va beh che invincibili non siamo mai stati, ma abbiamo imparato a controllarci e controllare il nostro corpo. Per permetterci di reagire a tutta la merda che arriva. Ma quando subentra una malattia, un “ospite prepotente” come lo definisce l’autore in un suo articolo, le cose cambiano. Siamo deboli, vulnerabili, abbiamo qualcosa ed è qualcosa che mina la nostra salute, la nostra vita, il nostro modo di essere.
“Non hai un’aria sana, sembri sieropositivo. Lo sembri più tu, gli ho risposto io. I sieropositivi che conosco io sono più simili a te- ovvero troie-, i sieropositivi che conosco io sono troie, come te”
La struttura del romanzo è molto bella, passando repentinamente da passato a quasi presente, da quando era un bambino a molti anni dopo, a quel periodo in cui gli è venuta la febbre che non è più andata via. Periodo in cui ha percepito che il corpo lo aveva tradito, in qualche modo. Jonathan ci parla dei suoi primi anni in modo preciso e articolato, fino ad arrivare all’adolescenza e da lì in poi il discorso si sposta sulla scoperta sessuale, raccontandoci temi che a molti possono sembrare quasi inverosimili, ma che non lo sono. Anche per questo è da ringraziare: per aver messo nero su bianco una realtà come quella di un giovane ragazzo alla scoperta del sesso e di chi invece ne fa un gioco.
Scrittura secca, tagliente e cruda, proprio come piace a me, con quella giusta punta di critica sociale e morale. A modo suo romantico, a tratti. A modo suo una mazzata, molto spesso. Consigliato se volete scoprire di più sull’HIV, sull’amore e sul dolore. Consigliato se avete pregiudizi di ogni tipo e se non ne avete mai avuti. Per me questo libro è un grosso sì. Ma lascio decidere voi: per scoprire di più vi lascio dei pezzi di intervista che io e delle mie compagne di università abbiamo avuto il piacere di fare a Jonathan, per un progetto sulla percezione del rischio di HIV nella popolazione generale, un progetto che abbiamo esposto giusto ieri.
A presto, B.
1) Innanzitutto, come stai? Come ti senti dopo l’uscita del libro? Ho letto che sei stato bloccato su Facebook proprio in quei giorni, credi che sia stato fatto di proposito? Credi che sia perché qualcuno ha ancora paura che si parli di HIV?
Io sto piuttosto bene. Sono ancora un po’ sul chi va là per quanto riguarda la ricezione di Febbre, ma sembra che i primi pareri siano molto buoni. Questo è un libro che – lo sapevo – smuove delle cose scomode, rimosse o ignorate. E non certo solo per l’HIV. Quindi la possibilità di tensioni o conflitti esiste. Per quando riguarda il blocco su Facebook è possibile che qualcuno abbia voluto darmi fastidio, ma non per forza a causa dell’HIV. Ho un passato da contributor su temi di attualità e di costume per vari magazine e testate online (Gay.it, Vice, The Vision, ecc.), e in qualche occasione è possibile che io mi sia fatto dei “nemici”. Per fortuna, pur essendo una persona sieropositiva dichiarata, molte dinamiche della mia vita passata e presente prescindono dal virus! Però è vero anche che io porto avanti un discorso sull’HIV molto personale, molto narrativo, in cui intreccio questo tema ad altro e magari a qualcuno può dare fastidio. Ma io appunto scrivo, non sono un attivista, o almeno, non sono un attivista che pratica le forme predefinite dell’attivismo. La mia scommessa è proprio parlare di HIV al di fuori dai registri abituali. Ampliare e aggiornare l’immaginario.
2) Qual è la cosa che ti sei sentito dire più spesso dopo che comunicavi ad altri di essere sieropositivo? Qualcuno ti ha mai “accusato” di essere il solo responsabile della tua situazione?
In realtà moltissimo, in quel tipo di situazioni, passa dalla comunicazione non verbale. Sguardi, posture del corpo… Imbarazzo, dispiacere e smarrimento sono forse le emozioni che ho percepito più spesso. Le persone non ne parlano facilmente, almeno non subito. Ci vuole un po’. Ora i miei amici li vedo meno a disagio. In ogni caso una domanda tipica che ci si sente rivolgere è “sai come l’hai preso?”, perché si cerca di capire dove l’altro ha sbagliato per non fare lo stesso. Come racconto in Febbre, spesso io mi sono trovato a rassicurare, a spiegare che le cose non sono più come negli anni ‘80 e nei primi ‘90: ero infastidito dalla reazioni eccessivamente rammaricate, e sapevo che toccava a me aiutare gli altri ad avere una visione lucida e aggiornata. Passato il periodo in cui non sono stato bene fisicamente ho cercato di reagire e di plasmare a mia immagine e somiglianza la mia nuova condizione. Mi chiedi se qualcuno mi ha mai accusato di essere il solo responsabile… Qualcuno sì, anche della mia famiglia. Ma “accusato” è un termine po’ forte, però diciamo che mi è stato sottolineato come l’HIV non sia una malattia che ti viene ma che ti prendi, che ti vai a cercare. Ma lo capisco, sono tutte forme di autoprotezione, modi per gestire una notizia non facile da metabolizzare.
3) La percezione che, purtroppo, la gente in generale ha dell’HIV è una delle ragioni che ti ha spinto a scrivere il libro? Ci sono altre ragioni? Quali? Ci piacerebbe saperle.
Allora, io ho deciso di parlare della mia sieropositività tre anni fa, nel 2016, lo stesso anno in cui ho ricevuto la diagnosi. Ho pubblicato (su Gay.it) un articolo (https://www.gay.it/gay-life/news/jonathan-bazzi-hiv) con cui ho deciso di vivere alla luce del sole quello che per molti resta un segreto. Perché innanzitutto non volevo dover stare attento, nascondermi, preoccuparmi dei pettegolezzi e delle fughe di notizie. E in più faticavo a rendermi conto del senso della cosa, faticavo a “sentirmi” sieropositivo. Non capivo bene cosa potesse voler dire. E per cercare di appropriarmi di questo nuovo pezzo della mia identità ho deciso di condividerlo. Lo sguardo degli altri secondo me ci aiuta a irrobustire il nostro senso di realtà. E l’ho fatto anche per vedere cosa sarebbe successo, per mettere questo nuovo elemento della mia vita a disposizione della mia riflessione. Io sono laureato in filosofia, scrivo, scrivevo già all’epoca. Non sono un sieropositivo che a un certo punto ha deciso di mettersi a scrivere per raccontare la sua storia, sono stato un aspirante scrittore che ha trovato una cosa interessante da raccontare, insieme ad altre che avevo già per le mani, come la mia infanzia a Rozzano, il posto in cui sono cresciuto. Questo è quello che ho fatto con Febbre.
4) Cosa sapevi dell’HIV prima di scoprire di essere sieropositivo? Avevi già avuto degli strumenti per informarti? A scuola, all’università, nei centri culturali e via dicendo?
Avevo idee confuse, vaghe, anche se non errate. Qualcosa sapevo, ma non mi prendevo molto cura della mia salute sessuale. Sapevo che non si muore più, che i farmaci aiutano a tenere sotto controllo il virus, ma non sapevo come fosse, concretamente, la vita di un sieropositivo. Informazione ne avevo ricevuta poca, decisamente poca. Avevo alcuni conoscenti, amici di amici, sieropositivi, quindi non avevo accumulato esperienza diretta, ma sempre mediata dai racconti degli altri, che spesso fraintendono, raccontano il virus dal punto di vista esterno, dei sieronegativi. Succede così quando i diretti interessati non possono o non vogliono parlare in prima persona di quello che sono, sentono, e fanno. Si creano narrazioni standard, superficiali, che mettono in scena le paure di chi non conosce come si sta da quest’altra parte.
5) Secondo la tua esperienza, qual è la percezione del rischio che hanno le persone di contrarre l’HIV? Pensi si siano fatti dei passi avanti negli ultimi anni? Cosa vorresti che cambiasse nell’approccio generale alla malattia?
Credo dipenda dalla generazioni. Penso che le nuove generazioni paghino un po’ la rimozione messa in atto dalle generazioni precedenti, messa in atto soprattutto da quando l’HIV non è più un virus che porta alla morte. Le nuove generazioni sottovalutano in genere il rischio o non ci pensano. Di HIV non si parla, molti pensano sia una malattia del passato, ormai superata, oppure una conseguenza dell’avere una vita sessuale estrema, borderline (qualsiasi cosa questo voglia dire). Ma non è così. Credo quindi siano stati fatti passi avanti medici, ma culturali no. Il piano emotivo e simbolico è come congelato a venticinque, trent’anni fa. E discorso mediatico e prodotti culturali non aiutano a far andare diversamente le cose. I sieropositivi sono tanti, ma restano invisibili, oppure figure stereotipate.
6) Credi ci sia ancora chi pensa di esserne immune? Un ragionamento del tipo “no, io non potrei mai averlo preso”, solo per ignoranza e perché non percepisce bene i rischi a cui può essersi esposto?
Sì, decisamente sì. Ma anche perché intervengono dei meccanismi di autorassicurazione. Io stesso non avevo mai fatto il test fino a quando mi è comparsa quella febbre che non andava più via. Ne avevo molta paura, e mi convincevo che non avendo una vita sessuale poi così smodata potessi in qualche modo non confrontarmi col problema. In realtà il test dovrebbe essere una routine, per tutti. Però è difficile che lo diventi finché si pensa che un esito positivo corrisponda a una condanna. La paura del test è uno dei campi su cui più ci sarebbe da lavorare.
Titolo: Febbre
Autore: Jonathan Bazzi
Casa editrice: Fandango Libri
Numero pagine: 326
Prezzo: 18,50€